PENSIERI

Il silenzio non è solo stare zitti

Il silenzio non è solo stare zitti
ma è la tua pace interiore
e sta nelle cose di tutti i giorni:

 

nella corsa di un bambino,
nel volo degli uccelli,
nella pioggia e nella neve
che cade libera e si posa delicatamente
come una ballerina nel suo spettacolo.

 

Questo è il silenzio, che vedere non si può,
ma tenerlo si.
E devi solo trovarlo
perché il silenzio
sei tu.

 

 

Melanya, 11 anni, peruviana
in Candiani Chandra Livia, Ma dove sono le parole, Effigie edizioni, 2015.

La posizione rimane l’incognito

La posizione rimane l’incognito che avvicinate senza preconcetti. Un po’ come una stanza oscura nella quale aprite lentamente una finestra: la luce progressivamente illumina lo spazio. La sostanza rimane sempre in risveglio, senza il più piccolo cambiamento durante la presa, il mantenimento ed il ritorno alla āsana.

 

Éric Baret, Lo yoga tantrico del Kaśmīr

Pratica e illuminazione sono una cosa sola

Pratica e illuminazione sono una cosa sola. E poiché la pratica ha le sue radici nell’illuminazione, anche la pratica del principiante possiede la pienezza dell’illuminazione, perché è in lui già dall’origine. Per questo, nel dare istruzioni sulla modalità della pratica, [il maestro zen] mette in guardia il discepolo di non cercare un’illuminazione al di là della pratica, ma di concentrarsi solo sulla pratica, senza mirare ad altro, perché questa forma di meditazione coincide con il risveglio della sua mente.

E dato che è proprio illuminazione della pratica, non c’è fine all’illuminazione; e dato che è pratica della realizzazione, non c’è inizio alla pratica.

 

Dōgen, Shōbōgenzō

Ringraziamo Silvia Patrizio per questo contributo che ha portato all’interno di Darśana – Lo Yoga attraverso lo sguardo dei testi.

Quando sei in crisi, cerca un bovino!

Continua la condivisione di pratiche che, a nostro avviso, possono essere utili in questo periodo sospeso che vede molti e molte di noi più statici del solito. Abbiamo chiesto aiuto alla figura mitologica del makara, poi a quella del piccione reale… e oggi ci affidiamo alla millenaria sapienza dei bovini: se c’è, infatti, una cosa che abbiamo imparato in India è “quando sei in crisi, cerca un bovino”!

 

Gomukhāsana

La postura del muso di vacca

“Seduti con il busto immobile, si portino ai lati della schiena i piedi distesi al suolo. Questa è la postura gomukha, che ha l’aspetto del muso della vacca.” GS: 2.16

«La Haṭhayoga-pradīpikā (I.20) precisa che le gambe devono essere incrociate in modo da portare la caviglia destra contro il fianco sinistro, e viceversa.» [1]

Si tratta di una posizione che potrebbe non essere accessibile a tutti al primo tentativo, ma che si presta ad essere praticata anche con adattamenti e in modo parziale.

Per accedervi ci sono diverse modalità
Dalla posizione seduta a ginocchia flesse:

  1. sedersi a terra con le ginocchia flesse e le piante dei piedi appoggiate al terreno e separate più della larghezza delle anche;
  2. a questo punto passare un piede, immaginiamo il destro, sotto al ginocchio sinistro per portarlo ad appoggiare il tallone all’esterno del gluteo sinistro;
  3. a questo punto fare la stessa cosa con il piede sinistro, passandolo sopra al ginocchio destro per portare il tallone all’esterno del gluteo destro. [2]
  4. La posizione finale ci vedrà seduti con il glutei a terra nello spazio dei piedi, i talloni appoggiati all’esterno dei glutei e e le punte rivolte verso l’esterno a ricordare le orecchie delle mucca.

 

Dalla posizione seduta con le gambe stese:
Utilizziamo spesso questa modalità quando avviciniamo gomukhāsana durante il riscaldamento delle gambe a inizio lezione, ispirato alla sequenza di “pawanmuktasana 1 – gruppo antireumatico” [3]: in questo si comincerà dalla gamba che passa sopra, allineando le due ginocchia e portando il tallone in esterno al gluteo.
Ci possiamo arrivare sia dalla posizione seduta statica, sia dal movimento che chiamiamo “del cullare” dove una gamba flessa viene mantenuta “come un bebè” e oscillata sul piano frontale, prima in modo delicato, poi più vigoroso verso l’esterno, per poi essere portata in chiusura, adagiando il ginocchio su quello della gamba stesa e il piede in esterno al gluteo.

In questo modo la posizione si presta anche ad essere eseguita in forma parziale, ossia mantenendo la gamba sotto estesa, soprattutto se l’obiettivo è di cominciare a lavorare su questo gesto di strizzamento del bacino.
Da questa mezza posizione sarà possibile passare alla posizione completa sollevando leggermente il gluteo ancora libero e flettendo la gamba stesa, portare il tallone all’esterno del gluteo.

 

Un’altra modalità, utile per chi ha gambe grosse o rigide, potrebbe essere quella di entrare in gomukhāsana dalla posizione quadrupedica che chiamiamo “del gatto”: in questo caso si può portare un ginocchio dietro l’altro, mantenendo i piedi ben distanziati, e, con l’aiuto delle mani, portare il bacino a terra nello spazio tra i piedi.
Utile a questo punto premere con le due mani sulle piante dei piedi e risollevare il bacino per qualche movimento di antero – retro versione e qualche movimento laterale che chiamiamo “della papera”: in pratica un oscillare a destra e sinistra mantenendo il bacino il più possibile morbido.

 

Qualunque sia la porta d’accesso per gomukhāsana la sfida è quella di riuscire a permanervi nell’agio: in caso di scomodità o fatica, oltre alla possibilità di praticarla in modo parziale, può essere utile aggiungere un rialzo sotto al bacino che consenta una seduta più alta e agile e meno richiestiva per le ginocchia.

La posizione si presta ad essere mantenuta statica, con le mani sulle piante dei piedi o sovrapposte sopra al ginocchio.
Non a caso nella tradizione Satyananda, con diverso nome, la posizione è indicata nel gruppo degli āsana meditativi come una valida alternativa ad altre posizioni sedute, e considerata molto benefica proprio per la inusuale posizione delle ginocchia e che “influisce sulla struttura pelvica e allunga i muscoli esterni delle cosce anziché quelli interni […] e inoltre massaggi e tonifica gli organi pelvici e riproduttivi.” [4]

La posizione è spesso proposta con una variante delle braccia che, in qualche modo, va a completare il lavoro in atto sugli arti inferiori.

 

Tuttavia a noi piace proporla più sotto forma di kriyā per come ci è stata trasmessa da Walter Thirak Ruta secondo gli insegnamenti ricevuti da Swamiji.
Si tratta in questo caso di realizzare la posizione statica prima con il busto eretto e poi in flessione, avvicinando il meno alle mani posizionate sul ginocchio, rimanendo in entrambe le posizioni per un certo tempo. Gli stessi gesti saranno ripetuti con un diverso atteggiamento delle braccia (braccia aperte lateralmente, braccia stese oltre il capo con le mani a preghiera in rotazione, mani a preghiera dietro la schiena…) mantenendo sempre la posizione statica prima a busto eretto e poi in flessione, avendo cura di non sollevare i glutei da terra e non “spalmarsi” sulle cosce-ginocchia, ma mantenendo sempre la schiena attiva e allungata e non indulgere nello spostare altrove il lavoro. [5]

 

La posizione si presta, inoltre, ad eseguire delle torsioni di colonna, da realizzare sui due lati per ciascun incrocio delle gambe.

 

Come tutte le posizioni sedute l’effetto prodotto dal radicamento del bacino a terra, in questo caso anche saldamente strizzato, è il favorire l’apertura toracica e l’allungamento della colonna, facilitato dalla leggera trazione che possono esercitare le mani intrecciate sulle ginocchia.

 

Quello che, a nostro avviso, questa posizione regala, in un momento così statico come quello che stiamo vivendo, è una trasformazione della zona della bassa schiena, molto deprivata dalla lunghe ore passate seduti, nonché un prodigioso strizzamento delle gambe, vincendo i crampi e contrastando il fenomeno diffuso delle “gambe senza riposo”, nonché il sopracitato allungamento delle fasce esterne delle gambe, collegate con il meridiano MTC della vescicola biliare, molto attivo in questo momento (si veda in merito l’articolo dedicato alla Primavera secondo la MTC).

A noi piace perché infonde pace, una pace profonda così come il respiro che ne deriva.

 

_______________________

[1] Fossati Stefano (a cura di), Gheraṇḍa-saṃhitā (Insegnamenti sullo Yoga), Magnanelli, Torino, 1994, p.49.
[2] notare che da qui, lasciando il piede sinistro appoggiato a terra nei pressi del ginocchio destro, potremmo passare direttamente in una variante di Matsyendrāsana.
[3] Swami Satyananda Saraswati, Asana Pranayama Mudra e Bandha, tr. it. Scuola di Yoga Satyananda Edizioni Satyanananda Ashram Italia, Rimini, 2011, pp. 21-42.
[4] ivi, p. 101
[5] Per un approfondimento: Walter Thirak Ruta, Dio è felicità, Edizioni Pramiti, 2011, pp. 197-199

Come un piccione seduto su un ramo…

Tra le pratiche che ci vengono in aiuto in questo periodo di parziale immobilità, c’è quella del piccione reale, nella variante semplificata, con la gamba che rimane allungata.

Eka Pāda Rājakapotāsana

“Essa merita di essere inclusa nella serie quotidiana delle āsana, perchè contribuisce a raddrizzare i dorsi incurvati e a liberare l’articolazione coxo-femorale, così minacciata dal nostro sistema di vita.”

Andrè Van Lysebeth [1]

Eka Pāda Rājakapotāsana può essere facilmente inserita nel riscaldamento dinamico prima di essere praticata in forma statica. Il modo in cui ci piace proporla, nei riscaldamenti un po’ “intensi” è nel passaggio tra il cane che guarda in basso e l’affondo.

Manu di solito la propone così:

  1. dalla posizione del cane che guarda in basso portare un piede tra le mani, immaginiamo il destro; a quel punto avremo il piede destro vicino alla mano destra e, dall’altra parte la mano sinistra. La gamba sinistra può poggiare il ginocchio a terra.
  2. Da qui, far “migrare” il piede destro verso la mano sinistra, agevolando la discesa del ginocchio destro verso la mano destra; certamente, il bacino rimarrà molto sollevato data la posizione fortemente angolata del ginocchio destro, variante che aiuta non solo l’articolazione dell’anca ma anche un lavoro sul posteriore della gamba e sul gluteo corrispondente.
  3. Da lì aumentare piano piano la flessione del ginocchio destro per muovere gradualmente il piede verso il bacino: ciascuno potrà decidere di quale chiusura necessita, sia per il tipo di lavoro ricercato sia in base alle proprie possibilità. Quello che andrà a variare, e che va considerato, sarà il posizionamento della coscia destra rispetto al bacino (più spostata verso l’esterno o piuttosto perpendicolare interrogando maggiormente l’equilibrio).
  4. Le mani saranno attive e sosterranno il busto mentre la gamba dietro, stesa e tesa, con la pianta del piede rivolta verso l’alto e non di lato – come indica con precisione Van Lysebeth nella sua descrizione – continua la sua azione di “scivolare” indietro aiutata dal peso del corpo, in parte sostenuto dalla mani-braccia, per andare a accompagnare con dolcezza il bacino a terra.

Quello che si può fare, in un primo momento, è passare in modo dinamico dal cane all’affondo facendo poi migrare il piede verso la mano opposta, per poi tornare, ripetendo con l’altra gamba e magari intervallando questo passaggio con altri āsana utili in questo piccolo vinyāsa, come la panca-sentinella o il passaggio ad un cane a tre zampe con l’apertura del fianco (sollevando un piede al cielo dal cane che guarda in basso, e facendo “cadere” il ginocchio-gamba dal lato opposto – quello che Manu, con i bimbi ma ormai anche con gli adulti, chiama “il cane che fa la pipì”… chiaro, no?).

Quando si sarà pronti si potrà pensare di provare ad abitare la posizione statica.

  1. Riprendendo da dove eravamo arrivati può essere utile, se non necessario, inserire uno spessore sotto al bacino di modo da poter sperimentare quella “spinta” verso terra rilanciata dallo scivolare della gamba indietro. Inizialmente per chi come Manu ha il dorso molto rigido, sarà impensabile realizzare la posizione nella sua estensione dorsale, liberando eventualmente le mani come sostegno.

Ma la domanda è sempre: su cosa vogliamo lavorare?

Incontriamo la difficoltà a piccole dosi.

Se la prima difficoltà sono le gambe o, comunque, è sul “jetl lag” della gambe che vogliamo lavorare, possiamo tenere le mani a terra e concentrarci sull’azione della gamba dietro; rimanere respirando e, gradualmente, spostare l’appoggio della mani sul ginocchio davanti: già questo diventa maggiormente richiestivo per il dorso poichè aumenta l’estensione dorsale, nonchè maggiormente sfidante l’equilibrio.

Tuttavia anche le mani posizionate a terra possono essere molto utili per dare una direzione al dorso: mantenendo le scapole vicine ed abbassate e giocando un pochino sulla leggera flessione dei gomiti per poi stenderli nuovamente, potremo sentire la retropulsione e la conseguente “esplosione” del petto in avanti, come la posizione del piccione reale richiede.

Che le mani siano a terra o sul ginocchio, a quel punto potrebbe essere utile realizzare una variante più semplice, ossia la flessione avanti, dove il busto si “spalma” sulla coscia-tibia (in base a come è posizionata la gamba davanti) e le braccia che scivolano avanti a terra. Scoprirete di poterlo fare tutti!

Da qui interessante anche muoversi con il busto nello spazio interno al ginocchio flesso, ossia in nel nostro caso a sinistra: altro movimento interessante. Tornando poi al centro riposizionare le mani e utilizzare con decisione per sollevare il busto, o meglio: per estenderlo! Sentirete una grande differenza!

Da qui sono possibili numerose altre varianti:

  • provare gradualmente a sollevare una mano alla volta per aumentare la pressione del bacino a terra;
  • portare le due braccia aperte a lato, con i palmi rivolti avanti, mantenendo le scapole unite e abbassate di modo da far avanzare il petto;
  • sollevare le braccia verso il cielo tenendo le mani a preghiera, aumentando l’inarcamento dorsale;
  • in ultimo è possibile unire le braccia stese davanti al petto con le mani a preghiera senza flettere il busto: qui la difficoltà del sollevare le braccia è amplificata dall’instabilità della base e dunque la necessità di continui aggiustamenti (spingere il bacino a terra, mantenere l’estensione del dorso e il petto aperto con le braccia sollevate in avanti).

La pratica di queste varianti consente un rilascio di tensione a livello delle gambe dato anche l’aumento dell’afflusso sanguigno nella zona del bacino, oltre ai benefici a livello del dorso-lombare già nominati. Il nostro Albiji è solito proporre queste varianti!

Un’altra possibilità è quello di provare ad eseguire la posizione “completa” che prevederebbe la flessione del ginocchio posteriore per portare, con il tempo e con l’aiuto delle mani, il piede a toccare il capo, con il dorso inarcato ad andargli incontro.

Questa variante non è decisamente adatta a tutti mentre potrebbe essere interessante, con il tempo, lavorare per poter afferrare il piede dietro, flettendo il ginocchio, per un lavoro più intenso a livello dell’ileo-psoas (tenerlo con le mani oppure incastrarlo nella piega del gomito); successivamente si potrebbe andare nella direzione della variante chiamata Vāmadevāsana che richiede che il piede posteriore si porti a “toccare” il piede della gamba davanti avendo cura di mantenere la coscia-femore anteriore esattamente perpendicolare al bacino.
B.K.S. Iyengar la descrive bene nel suo testo [2].

Oltre ai benefici già indicati da Van Lysebeh, B.K.S. Iyengar sostiene:

“Queste posizioni ringiovaniscono le regioni lombari e dorsali della colonna vertebrate. Esercitano i muscoli del collo e delle spalle; i vari movimenti delle gambe rinforzano le cosce e le caviglie. L’aumentala circolazione sanguigna nella tiroide, nella paratiroide, nelle ghiandole surrenali e nelle gonadi aumenta la vitalità. Inoltre queste posizioni stimolano la circolazione intorno alla regione pubica mantenendola sana. Questi āsana sono consigliati per curare i disturbi del sistema urinario e per controllare il desiderio sessuale.[3]”

Aggiungendo per Vāmadevāsana:

“Questo āsana allevia il dolore, cura la rigidezza alle gambe e mantiene sani gli organi genitali. Tonifica anche la colonna vertebrale e migliora la digestione.[4]”

Per avere delucidazioni sulla sequenza proposta, seppur con qualche differenza, segnaliamo questo link

Dopo averla praticata sia in modo dinamico sia come posizione statica, potrebbe essere utile fare qualche passaggio nel vinyāsa già descritto per poi proseguire con una delle altre posizioni:

Bhujaṅgāsana, il Cobra

Gomukhāsana, la posizione del muso di vacca.

Quale scegliete?

________________________

[1] Van Lysebeth Denise e Andrè, I miei esercizi di Yoga, Mursia Editore, 1980, p. 147

[2] B.K.S. Iyengar, Teoria e pratica dello Yoga, Edizioni Mediterranee, 2003, pp. 305-307

[3] ibid, pp. 339-345

[4] ibid. p. 307

[5] immagini tratte da Walter Thirak Ruta, Dio è Felicità, Edizioni Pramiti, 2011, pp. 194-196

La miglior cosa da fare stamattina

La miglior cosa da fare stamattina
per sollevare il mondo e la mia specie
è di stare sul gradino al sole
con la gatta in braccio a far le fusa.
Sparpagliare le fusa
per i campi la valle
la collina, fino alle cime alle costellazioni
ai mondi più lontani. Fare le fusa
con lei – la mia sovrana.
Imparare quel mantra che contiene
l’antica vibrazione musicale
forse la prima, quando dal buio immoto
per traboccante felicità
un gettito innescò la creazione.

 

Mariangela Gualtieri, Le giovani parole, Einaudi Editore, Torino, 2015

E il coccodrillo come fa?

MAKARA KRIYĀ

Tra le pratiche che solitamente proponiamo in primavera c’è quella (adorata!) dei Makara kriyā, una serie di ripetute torsioni eseguite a terra.
Si tratta di una pratica che il Maestro proponeva spesso prima dei Saluti al Sole, come sorta di preparazione, Yoga Vyāyāma, oppure come vera e propria Yoga Sādhana, con numerose varianti e ripetizioni.
A noi piace praticarla e proporla in entrambi i modi, e riteniamo che sia uno dei migliori “regali” ricevuti da Samiji perché semplice, sicura, adatta a tutti i livelli e che richiede una buona presenza ma induce quello stesso tipo di calma che porta la ripetizione di un mantra.

Qui proponiamo qualche variante, ritrovata sul libro “Yoga per tutti” di Philippe de Mèric* che nel capitolo 23 la propone come “Una serie ‘lampo’ per persone affaticate”.

“[…] vi proporremo una serie più tranquilla e molto meno nota, che meriterebbe peraltro d’essere maggiormente conosciuta per parecchie ragioni.
Questi esercizi, che provocano una specie di frizione della colonna vertebrale, attivano la circolazione sanguigna generale, massaggiano dolcemente le vertebre e favoriscono la digestione. In apparenza non c’è alcuna controindicazione nei loro confronti, in quanto non richiedono ne sforzi dolorosi ne particolari qualità atletiche.
Il loro nome deriva dalla mimica, che all’incirca riproduce i «movimenti del coccodrillo che esce dal fango dopo il suo pasto». Benché vi siano dei dubbi circa questa analogia, ciò non toglie nulla all’interesse dell’esercizio.”

La loro peculiarità è quella di svolgersi da sdraiati (solitamente schiena a terra ma anche pancia a terra…) mantenendo la colonna in allungamento e le braccia aperte a croce o un poco più basse, tenendo le spalle come punto fisso: sarà il bacino, infatti, il fulcro della rotazione, rotazione che si intesificherà ingaggiando maggiormente le spalle, mano a mano che le varianti accorceranno la leva della gambe (dalle gambe stese alle gambe flesse ad esempio).
La testa può ruotare, se libera, o rimanere fissa con lo sguardo al soffitto cercando di mantenere il collo allungato e rilassato anche nel momento in cui le spalle fossero rigide e sollecitate dalla rotazione del bacino: in quel caso occorre la giusta disponibilità e fluidità per lasciarle sollevarsi, quanto serve, continuando in modo dinamico le rotazioni e solo dopo molte ripetizioni provare a permanere nella statica, aiutandosi con la mano a terra (del lato della rotazione) per “invitare” la spalla opposta a cercare il terreno; in caso di rigidità del dorso e del conseguente “grande sollevamento” della spalla opposta, con il rischio di “spingere” la mano-avambraccio verso terra con il conseguente rischio di puntare così la spalla verso l’alto (l’opposto della direzione del lavoro), potrebbe essere utile provare a ridurre la leva del braccio, piegandolo al gomito con la mano verso la testa o con qualunque altra variante che non irrigidisca, ma permetta di rimanere e respirare nell’agio.

Consigliate tante ripetizioni dinamiche per variante, che si possono eseguire a polmoni pieni: inspiro – trattengo – ruoto su un lato- ritorno al centro – espiro, e ripeto dall’altro lato e continuo.
Dopo che si sente di aver “esaurito” la ricerca per quella variante, si passa alla successiva. In base al tempo e alle necessità si possono selezionare le varianti più utili.
Utile potrebbe essere cominciare con qualche estensione laterale “scarica” da terra, come quelle che de Mèric propone in chiusura, e cominciare con almeno un paio varianti a gambe allungate prima di passare ad altre più “corte” che ingaggiano maggiormente le spalle ma che permettono di permanere nella statica.

Al termine si possono nuovamente eseguire allungamenti isometrici e rimanere qualche momento in śavāsana oppure passare pancia a terra in varianti di makarāsana

“Questo insieme di esercizi viene spesso considerato dai maestri yogi come una preparazione a una seduta di posizioni completa.
Per noi rappresenta un avviamento, scelto fra numerosi altri, che ha il merito di essere alla portata di tutti in quanto richiede pochissimo tempo.
Potrete esercitarvi al mattino o alla sera prima di coricarvi, per prepararvi al sonno, a meno che non vogliate eseguire questi esercizi fra due delle serie che troverete in questo libro.”

Per noi è la tipica pratica “per tutte le stagioni” e che consigliamo anche di praticare a casa, lasciandosi guidare dall’innata conoscenza del corpo, il nostro grande Maestro.

____________________

*Philippe de Mèric, Yoga per tutti, Garzanti Editore, 1971, pp. 235-241

E tu che cosa vedi?

M. […] Il fatto e che tu non osservi con sufficiente attenzione. Guarda bene e vedrai ciò che vedo io.
V. E tu cosa vedi?
M. Vedo ciò che potresti vedere anche tu, qui e ora, se non concentrassi la tua l’attenzione nella direzione sbagliata. Tu non presti attenzione a te stesso. La tua mente è sempre con gli oggetti, le persone e le idee, e mai con te stesso. Mettiti al centro dell’attenzione, diventa consapevole della tua esistenza. Guarda come funzioni, osserva le motivazioni e i risultati delle tue azioni. Esamina la prigione che hai costruito intorno a tè, per inavvertenza. Conoscendo ciò che non sei, arrivi a conoscere tè stesso. La via per tornare a tè stesso passa per il rifiuto e la negazione. Una cosa è certa: il reale non è immaginario, non è un prodotto della mente. Anche la sensazione dell'”io sono” non è continua, sebbene sia un utile indicatore: ti mostra dove cercare, ma non cosa cercare. Osservalo con attenzione. Non appena sei convinto che l’unica cosa vera che puoi dire di tè è “io sono”, e che non puoi essere niente di ciò che è possibile indicare, il bisogno dell'”io sono” svanisce non ti accanisci più a cercare una spiegazione verbale di ciò che sei. Hai soltanto bisogno di sbarazzarti della tendenza a definire te stesso. Ogni definizione si riferisce unicamente al tuo corpo e alle sue espressione. Quando sparirà l’ossessione del corpo, ti rivolgerai spontaneamente e e senza sforzo al tuo stato naturale. L’unica differenza tra noi è che io sono consapevole del mio stato naturale, mentre tu sei confuso. Come l’oro lavorato e trasformato in gioielli non è più pregiato della polvere d’oro, se non per il valore che gli da la mente, così noi siamo una cosa sola nell’essenza e diversi soltanto m apparenza. Lo scopriamo se siamo seri, lo scopriamo cercando, indagando, interrogandoci ogni giorno, a ogni ora del giorno, dedicando la vita a questa scoperta.

 

Sri Nisargadatta Maharaj, Io sono quello, Ubaldini Editore, Roma, 2001, p.10

Il piccolo saluto al sole

“Ripercorrere i gesti non significa ripetere. Quando ciò che interessa è apprendere, non c’è ripetizione: piuttosto, si approfondisce la comprensione attraverso passaggi successivi. Senza questo ripresentarsi del gesto, questo ripercorrerlo, non si impara. È altresì chiaro che per apprendere ci vuole vigilanza, apertura, sensibilità. Il ripetere fa ricorso alle abitudini, il ripercorrere no.”

Renata Angelini e Moiz Palaci [*]

 

Tra le sequenze che ci piace proporre troviamo quella chiamata “Il piccolo Saluto al Sole”.
Pensiamo che possa essere particolarmente indicata anche in questo momento di “ridotta mobilità” perché si tratta di una sequenza semplice dove movimento e respiro sono coordinati, adatta a chiunque poiché non richiede grandi movimenti articolari o sforzi particolari: si svolge su due piedi e, solo se possibile, vi si possono aggiungere alcune varianti in affondo che, tuttavia, sono trascurabili se questo movimento non è agile e/o non porterebbe ad una postura comoda. Per questo l’abbiamo suggerita all’interno del piccolo bagaglio per la pratica che abbiamo chiamato “Una guida alle posizioni per la 40ena“.

La pratica del Saluto al Sole è diffusa tra diverse tradizioni e lignaggi e ciascuna mantiene le proprie peculiarità; questa sequenza abbiamo avuto modo di sperimentarla con con Walter Thirak Ruta durante gli anni della formazione, proprio come alternativa interessante e ugualmente significativa ai più “classici” saluti al sole, e la ritroviamo spiegata nel dettaglio in nell’articolo curato da Moiz Palaci e Renata Angelini per “Percorsi Yoga”, una delle pubblicazioni della YANI (Associazione Nazione Insengnati Yoga).

Si tratta di una sequenza di base a 12 gesti, eseguiti con grande presenza e accompagnati dal respiro: Walter suggeriva di eseguire i gesti in modo “teatrale”, intendendo di porre enfasi sui gesti per “indirizzarli” meglio dal punto di vista energetico.
Angelini e Palaci segnalano l’importanza della regolarità del respiro, in grado di diminuire quella forma di urgenza che spesso ci accompagna e ci porta a “scappare via” dalle posizione, e la capacità di “mantenere una relazione costante con la base d’appoggio durante il concatenarsi dei movimenti”.

 

 

Si presta ad essere praticato accompagnato dal Sūrya Mantra, il canto dei 12 dei nomi del Sole, in questo modo la gestualità potrà assumere una maggiore valenza rituale e simbolica, che sarà esemplificata nei gesti: espiro offro, inspiro prendo e porto verso di me e in alto, espiro e mi tuffo…
In questo modo non solo la gestualità assumerà la giusta teatralità del rito, ma permetterà alla sequenza di essere più facilmente memorizzata, oltre a diventare strumento di gioco con bambini e bambine, a cui questa pratica piace molto.

Generalmente è una pratica che dà molta pace, in grado di scaldare il corpo in modo completo senza sollecitare troppo le articolazioni.
È possibile anche praticarlo da seduti con alcuni semplici adattamenti risultando ugualmente efficace.

Il dettaglio da curare, qualsiasi sia la versione praticata, è la percezione di una base d’appoggio stabile, dalla quale si parte con l’inspiro e alla quale si torna con l’espiro, trasformati dal viaggio.
Allora sì che questo gesto di prosternazione e di gratitudine che volgiamo al sole sarà il nostro vero “moto di rivoluzione”.

_____________________

[*] Renata Angelini, Moiz Palaci, Una coscienza in grado di accogliere movimento e non movimento, in Percorsi Yoga n.38, YANI, Milano, 2006

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