La via dello Yoga

Le radici delle pratiche yoga affondano lontano tempo, probabilmente nel secondo millennio avanti nostra era, tuttavia la prima sistematizzazione organica della disciplina è opera dello Yogadarshana ai primi secoli delibera corrente. La scuola traccia un percorso che si dipana in otto tappe o, come indica il termine ashtanga riferito a questa particolare forma di Yoga, è articolato in “otto membra”, la cui finalità è la dissociazione del praticante da tutto ciò che è materiale per liberare la propria essenza spirituale.

Secondo la visione hindu l’attaccamento alla materia, determinato dall’ignoranza, è la fonte di ogni sofferenza. Lo Yogadarshana si prefigge di attuare la separazione dello Spirito dalla materia per interrompere definitivamente la dolorosa catena delle reincarnazioni e realizzare la liberazione suprema il moksha. Tale obiettivo -primario nel contesto culturale dell’epoca per i destinatari degli Yogasutra, cioè gli asceti che anelavano alla definitiva interruzione del samsara – rischia, se interpretato letteralmente, di condurre ad una pericolosa scissione. Il testo può tuttavia validamente essere riproposto, rileggendolo in termini di affrancamento da certe modalità di vita e non dalla vita stessa.

Il metodo proposto, l’ashtangayoga, è invece tutt’oggi validissimo, poiché rende più consapevoli di sé e responsabili nei confronti degli altri e del mondo circostante. Rivisitato in questi termini, lo Yoga diventa una sorta di magister vitae, maestro di vita, che induce a cercare il senso dell’esistenza e a dargliene uno.

La rotta etica è tracciata dalle prime due membra dell’ashtangayoga: yama, le “restrizioni” che regolano i rapporti interpersonali, invitando a innocenza, autenticità, generosità, dedicazione, essenzialità; niyama, le “prescrizioni” che favoriscono una relazione più funzionale con se stessi, coltivando purezza, appagamento, ardore, consapevolezza e entusiasmo.

L’esercizio di yama e niyama è una costante revisione interiore delle proprie modalità di interazione con gli altri, il mondo e se stessi, e un impegno alla testimonianza silenziosa di valori che si traduce in fatti e non in vaniloquio. Il primo esercizio del silenzio nello Yoga è proprio evitare le parole inutili, restituendo al parlare la sua dignità di strumento comunicativo ed espressivo, rammentando come la parola sia addirittura stata trasformata in una Dea nella tradizione indiana e sia considerata la forza che manifesta il mondo. Non solo: le lettere dell’alfabeto sanscrito sono chiamate “Piccole Madri”, quando si vuole alludere al loro potere generativo e significativo.

 

Marilia Albanese, Tacita-Mente, Mimesis Edizioni, Milano, 2016, pp. 16-17

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